giovedì 24 ottobre 2019

LA GENTE CHE SCOMPARE DALLA MEMORIA


Ho smarrito per strada il nome di qualcuno che ho conosciuto nell'arco della vita sinora.
Di cui ricordo a malapena la forma delle labbra, il corrucciarsi caratteristico di un sopracciglio, i raggi dorati nel verde azzurro degli occhi.

Dettagli piccoli di interi dimenticati.

Ho smarrito il sapore dei giorni insieme, degli screzi, dei viaggi.

Ho ben vivo il ricordo del cibo.
La bocca ha una memoria sorprendente...

Per il resto, sembra quasi di guardare una pellicola sbiadita, di quelle che non suscitano emozione, che faccio scorrere avanti e indietro, alla ricerca di qualcosa che riaffiora, ma rimane sopito, ormai spento.

Salvo quanto, ancora, si accende sulle note di una canzone.

Ad oggi però, mi rendo conto che sono io sola a riemergere dai miei ricordi.

Stringo tra le mani ciò che sono, ma la mia immagine riflessa al mondo mi sfugge, sempre, rintanandosi nella zona d'ombra che da qui mi è preclusa.

Mi sembra, per certi versi, di mancarmi di rispetto, a dimenticare.

Perché c'ero anche io, in quei ricordi.

Ma ci sono soprattutto adesso.
Ed è questo che val la pena tener presente.
Così come sono e non come ero e non sarò più.




SE IL MONDO, DOMATTINA, SI SVEGLIASSE INTELLIGENTE...



Il titolo è, in verità, la traduzione di un'esclamazione che mi è risuonata nella testa, non molto tempo fa, in questo terrificante luogo ameno.

Ci sono bambini che schiamazzano sotto la mia finestra, e genitori che li assistono amorevoli (leggi "scimmie urlatrici" che vanno in apnea per diversi minuti, emettendo suoni che fanno rimbombare le spesse pareti, e genitori incapaci di porre un freno a queste esternazioni moleste: cioè, a casa vostra fate un po' come ve pare, ma a casa/sotto casa degli altri, vi par troppo di adeguare il vostro contegno?).

A parte le nuovissime generazioni, le vecchie e vecchissime, pure, non scherzano.
Tra gente che urla e sbatte le porte ogni secondo, ogni giorno, sembra di stare al manicomio.
Da sani però, in un contesto malato, dove tutte queste sollecitazioni negative farebbero impazzire chiunque.

Star soli è meglio che stare in pessima compagnia, questo è certo.

Soprattutto se è una compagnia ininterrottamente rumorosa e obbligata.

Nemmeno gli auricolari gommosi del telefono ficcati come tappi nelle orecchie per cercare di mantenere la concentrazione e fare ciò che devo, smorzano l'invadente sgradevolezza cui sono sottoposta.

Cerco rifugio dal rumore, e non riesco a trovarne se non per brevi istanti.

Mi scoppia la testa.

Sono insofferente.

Non tanto al rumore in sé, quanto al vuoto che lo sostiene.

All'intelligenza che gli manca.

Alla sostanza.

Dove diamine sono capitata?

Me lo chiedo ogni giorno.

È degradante avere a che fare con una simile disumanità.

Il fatto che altri non abbiano un'etica, o vi deroghino tranquillamente, non costituisce motivo sufficiente per metterla da parte, a mia volta, ma abbatte sensibilmente lo stato d'animo con cui mi alzo al mattino, e mi avvio al lavoro.

Non è solo una questione di intelligenza, questa erbaccia cattiva: affonda le radici nell'ignoranza e nella cattiveria.

E mi domando fino a che punto sia possibile spingere le mani in questa terra nera per cercare di estirparla.

Questa mi pare oggi una bella sfida, da intraprendere in silenzio, senza clamore, senza preannunciare il colpo, ma predisponendolo, affinché accada.











sabato 5 ottobre 2019

DUE TAZZINE DI CAFFÈ


Ci sono giorni di lontananza obbligata, che obbligano ad abitudini solitarie.

Mangiar soli è una di queste.

Una delle peggiori.

Si sta al telefono, buona parte del tempo, e diventa un'altra abitudine quella di dirsi "pronto" invece che "ciao".

Si è ripreso a studiare entrambi per cercare di progredire ulteriormente, e questo comporta sacrifici ulteriori sotto ogni punto di vista.


Stamattina abbiamo trascorso il momento della colazione in videochiamata, ed io, che non sono di quelle molto accorte in tal senso, avevo i capelli ancora arruffati dal sonno e dagli incubi (ho sognato che mi derubavano, nella città orribile dove lavoro, e che mi angosciavo per il tempo da perdere per andare a far denunzia e bloccare le carte).

"- ... Senti, ho versato il caffè in due tazzine.
- come? 
- ho messo lo zucchero in una delle due tazzine, per te, ho versato il caffè e ho girato anche il cucchiaino prima di rendermi conto che non c'eri, fisicamente..." 

Mi sono messa a ridere di gusto.

Prepararsi il caffè è una delle forme in cui si traducono certi sentimenti.

E non so che darei per poter fare ogni mattina la colazione a casa con chi desidero, invece di svegliarmi in un luogo estraneo, incrociando gente altrettanto estranea, che non solletica nemmeno la curiosità di scambiarci più di due parole di cortesia o per educazione.




mercoledì 2 ottobre 2019

LA FLEBO DELLA SPERANZA


È un po' come stare attaccata a una flebo, nell'attesa che questa acquosa speranza si concretizzi e mi resusciti.

Non è proprio così.

Continuo ad andare avanti nei giorni e farmi trapassare dal tempo che sono obbligata a consumare e che mi consuma.

Tento disperatamente di mantenere in vita la mia umanità, in un contesto che è, per contro, disumanizzante.
In rapporti in cui pesa e viene fatto pesare l'apparire e l'avere, in luogo dell'essere e del sentire.

Essere l'unica voce fuori dal coro, sotto diversi punti di vista rilevanti, non fa che rendermi più ostinata nel non cedere.

Non fa che rendermi, però, anche più distante.

Distanze che, beninteso, non mi interessa percorrere, perché significherebbe andare a ritroso, regredire verso stadi di sottosviluppo attraverso i quali non sono mai nemmeno passata.


Come ogni giorno della settimana, non desidero anche oggi altro che rientrare a casa mia questo week end.

La vita qui è disinteressante come il nulla.