mercoledì 26 settembre 2018

GLI STRASCICHI DELLA VECCHIA PROFESSIONE



Le impellenti scadenze per l'anno di imposta passato fanno rimergere la vita passata.
E la burocrazia di ben dieci anni non è roba da poco.
Mi travolge.
E mi sento sopraffatta, al solito, da mille pensieri.
Ho sentito i vecchi colleghi di una vita che non mi manca, e ascoltato dinamiche che guardo con un distacco che quasi mi spaventa.

Ho recuperato, catalogato e ordinato una serie di dati, e li ho trasmessi a chi dovevo.
Non ho ancora finito.
Ho fatto un altro piccolo passaggio di consegne, e mi sento davvero come quello che corre e passa il testimone a quello avanti che comincerà a correre al posto suo.
Non che io non continui a correre, ma lo faccio su un percorso diverso, per certi versi più stimolante, per altri semolicemente più rasserenante, ma non meno difficoltoso.

L'angoscia per il futuro ha lasciato il posto a una enorme stanchezza.
In questo il nuovo lavoro ha cambiato le mie precedenti prospettive di vita professionali.
I miei ritmi vitali.

Sono tornata da lavoro e mi sono rimessa al lavoro, dunque.
Ho aperto poco fa la terza birretta, e ho mangiato un piatto di pasta, per compensare il digiuno sostenuto amaramente a ora di pranzo, passata davanti a uno schermo a sgranocchiare un pacchetto di crackers.
Mentre scrivo ascolto il podcast di un programma radiofonico che mi piace molto e non ho più modo di seguire.
Lo ascoltavo quando uscivo la sera, al rientro a casa.
Una vita fa.

Cosa importa alla fine?
Quanto ci si riesce a rasserenare l'un l'altro, se ci si riesce, nonostante tutto.
Quanto può esserlo la vista di una spiaggia esotica, o immergersi in un bosco che profuma di selvativo.
Quanto ci si riesce a stringere, invece che ad allontanarsi.








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